Dopo “Once”, il licenziamento di Tarja (e tutto il seguito che ha avuto la vicenda), e dopo l’uscita di due singoli, arriva per i Nightwish la prova del primo album del nuovo corso con la svedese Anette Olzon.
“Dark Passion Play” è un album pretenzioso e complesso, e in questo rispecchia senza dubbio ciò che ci dovrebbe aspettare dalla band di Tuomas Holopainen e compagni. Basta pensare all’iniziale “The Poet And The Pendulum”, intricata e ambiziosa canzone di quattordici minuti (abbastanza insolita all’inizio di un disco) in cui la band si sbizzarrisce spaziando tra le sinfonie oscure evocate dal tastierista, le lunghe parti melodiche in cui possiamo meglio gustare la voce delicata della nuova cantante (ovviamente diversa e forse anche meno espressiva rispetto a Tarja, ma che non sfigura comunque in quanto a talento), e le “sfuriate” del solito Hietala tra i riff di chitarra di un Vuorinen in gran spolvero.
A seguito di questo affascinante brano la band ci ripresenta tratti più aggressivi in “Bye Bye Beautiful”, dove le chitarre si fanno più pesanti ed anche il sound ne viene fortemente influenzato scostandosi abbastanza da quanto abituati dal quintetto per avvicinarsi invece a sonorità più vicine all’altra band di Marco, i Tarot.
La canzone più "easy-listening" del disco è il singolo "Amaranth", per cui rimando alla recensione specifica (come per la ballad "Eva"), mentre nella successiva “Cadence Of The Last Breath” si torna ad atmosfere care al gruppo finlandese, che in questo senso non ha cambiato molto rispetto agli ultimi lavori, limitandosi ad un adattamento per la voce di Anette e a rafforzare la teatralità delle proprie composizioni. Molto interessante è “Master Passion Greed”, dall’avvio veloce e potente frutto della combinazione Vuorinen/Nevalainen, un brano granitico e tendente per certi versi al Thrash, unito alle consuete sinfonie rese qui ancora più aggettanti, ed ai fastosi cori del ritornello.
Seguono “Eva” e “Sahara”, traccia dove si nota in modo piuttosto evidente l’aumentata potenza della band rispetto al lavoro precedente, mentre c’è spazio per atmosfere “da film” (così sarà anche ad esempio in Meadows Of Heaven), e Anette può dar pieno sfogo alla sua voce, che però è messa a volte quasi in secondo piano, o comunque meno in risalto rispetto al resto.
La frenetica “Whoever Brings The Night” dall’impostazione vocale della svedese ha quasi l’aria di una sorta di “filastrocca”, impreziosita dall’assolo di Vuorinen, sempre abile ad appesantire le trame melodiche del tastierista Holopainen con la sua chitarra. “For The Heart I Once Had” è una mid-tempo caratterizzata da un’atmosfera più leggera in cui protagonista è Anette, qui autrice di una prova quantomeno interessante che non fa troppo rimpiangere la partenza della sua più famosa collega, mentre “The Islander” con la sua chitarra acustica ha un ché di folk, che la accosta quasi alle ballate celtiche, e degno di nota è il duetto Hietala/Olzon.
Il violino che apre “Last Of The Wilds” lascia presagire la continuazione sulla falsa riga del pezzo precedente, ed effettivamente la venatura “folkeggiante” del gruppo viene esaltata da questo lungo brano strumentale (di quasi sei minuti!) che contribuisce ad alzare la media del disco.
Verso la conclusione troviamo “7 Days To The Wolves”, che riprende le classiche sonorità dei Nightwish (e quindi soprattutto le pompose sinfonie orchestrali), con un altro duetto tra il barbuto bassista e la cantante, e a chiudere “Meadows Of Heaven”, che come già detto si presterebbe benissimo a colonna sonora di un film (che i finlandesi vogliano fare concorrenza come “Hollywood Score Metal” ai nostri Rhapsody Of Fire???). Qui vengono fuori altri aspetti della voce di Anette, che sicuramente è di scuola diversa rispetto a Tarja, la quale aveva un timbro più classico da cantante lirica, mentre la nuova entrata ha una voce che si presta meglio a generi di più ampio raggio (per non dire “commerciali”), come vediamo dalla conclusione in cui si passa addirittura al Soul.
Un album quindi che rafforza alcuni elementi che già trovavamo nella band, soprattutto l’aspetto sinfonico, ma che ne sa esaltare anche la potenza, oltre a sonorità appena accennate nei lavori passati, grazie a parti più folk e, per forza di cose, al bagaglio personale dato dalla nuova cantante. Su tutti spiccano brani come “The Poet And The Pendulum”, “Master Passion Greed”, “The Islander”, o anche la strumentale “Last Of The Wilds”, ma nel complesso dei suoi oltre settantacinque minuti questo “Dark Passion Play” è senza dubbio un album ben riuscito, che pur senza raggiungere il successo di “Once” si presenta come un buon biglietto da visita per la rinnovata line-up del combo scandinavo.
Superata la prova in studio, l'esame più difficile sarà il confronto dal vivo, soprattutto sui vecchi brani.
Recensione di Marco Manzi
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