Il "Diario di una band pazza" è un titolo che calza a pennello per questa nuova uscita discografica dei Down, progetto parallelo di Phil Anselmo o se preferite super gruppo formato dai migliori esponenti dello sludge/stoner americano. Per chi non lo sapesse infatti di questo progetto fanno parte, oltre al gia citato storico frontman, Kirk Windstein (Crowbar), Pepper Keenan (Corrosion Of Conformity), Rex Brown (ex-Pantera) e il polistrumentista Jimmy Bower (Eyehategod), una squadra di brutti individui che, quasi per scherzo, hanno creato una giusta formula che fonde assieme heavy, stoner, sludge e un pizzico di quell’anima southern che li ha sempre accompagnati, mettendo sempre in primo piano la potenza dei riff anzichè le veloci tempistiche rock e ottenendo un risultato che forse nemmeno loro si aspettavano. In "Diary Of A Mad Band" troverete la prima vera e propria testimonianza on the road del quintetto di New Orleans, alle prese con il loro sbarco in Europa tenutosi nel 2006 e qui riproposto con una tracklist di 16 pezzi estratti dai primi due album, uno per tappa. La carne messa al fuoco è davvero molta in quanto vengono riproposti tutti i migliori brani, dalle monumentali "Eyes Of The South" e "Stone The Crow" alla dedica per Dimebag Darrel con la hit per eccellenza del gruppo, "Lifer". Da non tralasciare poi la possente "The Seed" o la doomegiante "Underneath Everything", fino ad arrivare poi alla chiusura affidata al carro armato "Bury Me In Smoke", riproposta nella calorosa e affollata cornice del Donington Park. Ad aggiungere al tutto un pizzico di simpatia sono poi i divertenti intermezzi tra un video e l’altro, dove vegono mostrati i vari backstage caratterizzati da alcol, fumo e grezzaggine assoluta da parte dei cinque, che come la storia ci insegna si ripuliranno poi negli anni seguenti. La spontaneità del prodotto è però il fattore più importante, durante l’intera visione è infatti molto percettibile quanto "Diary Of A Mad Band" vuole essere un regalo genuino dalla band ai fan. A prova di questo non ci aspetta altro che una produzione si buona ma comunque molto casereccia e un Phil Anselmo che, nonostante faccia della sua immagine e carisma l’arma vincente on stage, risulta essere completamente fuori forma vocale. Insomma di ritocchi per cammuffare certe debolezze si potevano fare, ma giustamente si è preferito evitare favorendo così la naturalezza musicale. Cambiano i club, cambia la gente, ma quello che conta è che non cambino loro, i Down, tutto in resto vien da sè ed infatti non c’è da stupirsi nel vedere ogni volta un pubblico cosi euforico ai loro concerti, perchè in fin dei conti loro ci piacciono così, brutti, sporchi cattivi e legati alle proprie tradizioni.
Recensione di Thomas Ciapponi
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