Dopo trentacinque anni dall’ uscita del loro primo disco e nonostante l’ assenza del noto chitarrista Micheal Schenker, gli Ufo tornano a farsi sentire col loro “You Are Here” generoso di 12 tracce, ma un po’ avido di emozioni.
“Daylight Goes to Town” apre il disco con una discreta dose di carica in stile rock ‘n’ roll come vuole la migliore tradizione di questo gruppo, il bridge, che rallenta il ritmo della canzone spezza la stessa dandole un tocco di varietà.
L’ intro di batteria di “Black Cold Cofee” da il via ad una canzone più sanguigna determinata da un ritmo incalzante e da un variegato riff di chitarra che da poi vita ad un buon assolo.
Se “The Wild One” deve essere “quella selvaggia” deduciamo che il gruppo ha un’ idea del selvaggio piuttosto narcotizzata, l’ arrangiamento infatti si esaurisce senza trasmettere pathos, positive sono invece la linea vocale che risolleva in parte le sorti del brano ed alcune parti di chitarra ( che rimangono però limitate).
Finalmente in “Give It Up” si intravvede una venatura di sentimento, rimasta assopita fin’ ora; l’arrangiamento e la voce scorrono lineari, senza arrischiarsi in alcun eccesso.
“Call Me” si caratterizza per sonorità leggermente più moderne, ma questo non è di aiuto ad una canzone che rimane piatta in tutto il suo svolgimento.
Tutt’ altro che meritevole l’inizio in falsetto di “Slipping Away”, il resto della canzone si posizione sulla linea della grigia mediocrità.
L’ arrangiamento di “The Spark That Is Us” sembra intentare un’ inaspettato ( seppur pallido ) incupimento delle tonalità, ma la voce non rispetta affatto la direzione intrapresa dai musicisti. Il risultato è uno sbiadito contrasto che non è titolare di particolari meriti.
“Sympathy” si caratterizza per la presenza di una propria personalità, spicca la prestazione di Vinnie Moore.
Il difficile connubio tra arrangiamento e linea vocale si avvicina in “Mr. Freeze” molto più che nel resto del disco ad una riuscita, anche se la sensazione di freddo è difficile da ritrovare. Verso la metà della canzone prende forma un’ inaspettato bridge che si avvicina distintamente alle sonorità dell’ heavy.
L’inizio di “Jellowman” riporta la mente al signor Stevie Ray Vaughan, ma le aspettative vengono in parte tradite da un pezzo blues-rock che non spicca per qualità.
Ci si domandava dov’è andato a finire il lentone di rito, ed eccolo qua: “Baby Blue” un po’ sdolcinato nell’ iniziare e nemmeno quello nel resto.
“Swallow” conclude il disco senza sorprese, rimanendo neutra per tutta la sua durata.
Il disco nel suo complesso sembra essere guidato da uno spirito di buon rock, che però si è dimenticato a casa una bella dose di energia risultando quindi opaco.
La presenza di Jason Bonham, figlio del leggendario drummer dei Led Zeppelin ( ed il marchio di fabbrica si sente ) e del guitar hero ( che da un punto di vista solistico da un ottimo contributo, ma per il resto non stupisce affatto ) tamponano un po’ quella che sembra essere una mancanza di idee.
Recensione di Lorenzo Canella
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