Una campana a morto batte i rintocchi luttuosi in memoria di un amico scomparso, un amico che aveva accompagnato la band nei primi dieci anni della sua storia, con la sua voce al vetriolo, graffiante come poche e terribilmente rock'n'roll. Quell'amico glorioso era Bon Scott, indimenticato singer degli australiani Ac/Dc, la band che forse più di ogni altra ha contribuito a consacrare l'hard 'n'heavy negli annali della storia.
Siamo nel 1980, e proprio mentre la band si appresta a fare il salto di qualità nelle vetrine di tutto il mondo, la morte la priva della sensazionale ugola di Bon.
Sotto implicito consiglio dello stesso rimpianto cantante, viene assoldato dietro il microfono Brian Johnson, ex vocalist dei Geordie.
Il nero lutto della copertina è di rigore, ma pur nella superiore tensione drammatica espressa dalla band tra i solchi del disco, quello che ne viene fuori è un messaggio adrenalinico senza precedenti, come se la band volesse invitare i rockers ad esorcizzare il dolore della perdita e dell'esistenza in genere con la furia e la carica dell'hard rock migliore di tutti i tempi.
Con un'attestazione di vendita pari a circa 45 milioni di copie vendute nel mondo, e se considerate inoltre che i brani di questo disco sono tra i più suonati, coverizzati e mandati in radio del pianeta, credo che un'analisi track by track non solo sia superflua ma anche controproducente.
Tutto il disco è un affresco di blues potenziato coi decibel assordanti di Marshall a massimo volume, una successione di martellate ritmiche che non conoscono un solo calo di potenza ed espressività.
Travolti da una tragedia incommensurabile, gli Ac/Dc rispondono con un inno alla vita costruito su alcune delle migliori scorribande chitarristiche della storia.
Non soltanto un disco, ma veri e propri filamenti di DNA di ogni rockers del globo. Dieci canzoni leggendarie.
Recensione di Marco Priulla
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