C’era un tempo in cui fiorivano band heavy metal come funghi, sulla scena mondiale i gruppi che sono ora diventati leggendari muovevano i loro primi passi o si erano affermati da poco, ed anche in Italia nel suo piccolo si poteva vantare un underground di un certo livello. Non è il caso di lanciarsi in un lungo discorso sul metallo di casa nostra, ma quest’introduzione serve a descrivere lo scenario in cui nascono i Furious Barking, band ascolana nata nell’88 e scioltasi poi sei anni dopo, all’inizio del ‘94. Questo “Theory Of Diversity” non è infatti altro che la pubblicazione dell’unico full-length mai realizzato dalla formazione marchigiana, che finalmente vede la luce a distanza di ben 16 anni grazie alla Punishment 18.
L’album ci presenta una band con sonorità fortemente influenzate dai cambiamenti del periodo, dal Thrash di matrice old school, si passa al Death americano ed a volte persino a parti più melodiche, dettate da influenze Power e NWOBHM, anche se il tutto viene arricchito da tecnica e soluzioni più moderne, almeno ai tempi, che indicavano sia l’evoluzione del genere, che il cambio di rotta del gruppo verso una musica più “oscura” e pessimistica nella sua aggressività.
“Theory Of Diversity” viene registrato e subito parcheggiato in attesa di decidere il futuro della band, che di lì a poco si dissolverà tra nuovi progetti e differenze d’opinione, ma ascoltando ora il disco nell’ottica di quando fu realizzato, ne escono dei brani di tutto rispetto, come la particolare “The Last Stop Is Mortuary”, la travolgente “Which Theory”, la conclusiva “Way Of Brutality”, forse la più potente fino all’”outro” acustica, o ancora “Every Indetermination Is Complete”, traccia che parte con la chitarra acustica per poi trasformarsi tra accelerazioni e frenetiche cavalcate in un brano malato con una buona attitudine live.
Se l’oscurità del loro “Apocalyptic Thrash Death Metal” (come definito dalla band stessa) traspare fin dall’introduzione del primo brano, “Decompression State”, quello che salta subito all’occhio è l’importanza delle due chitarre, che sono il punto di forza di questo gruppo, tra riff contorti e cambi di tempo continui che vivacizzano le composizioni, dando quel tocco in più ad una sezione ritmica altrimenti un pò sterile, tra la batteria e la voce, velenosa ed aggressiva, ma non eccezionale e in grado di incidere poco, del cantante Rob Mattei.
Tutto sommato un buon disco che ci riporta indietro nel tempo verso la fine di quella che era l’epoca d’oro per il Thrash, e ci permette di conoscere, e per gli appassionati anche apprezzare, uno dei tanti gruppi, ricordati con nostalgia dalla “vecchia guardia”, che pur muovendosi nell’underground, hanno contribuito ad animare la scena nostrana.
Recensione di Marco Manzi
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