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elenco recensioni

Opeth - "Watershed" (Roadrunner Records/Roadrunner Records)

Line up:

Mikael Åkerfeldt - vocals, guitar, production
Fredrik Åkesson - guitar
Martin Mendez - bass
Martin Axenrot - drums, percussion
Per Wiberg - keyboards
Nathalie Lorichs - guest vocals on "Coil"
 

voto:

8
 

recensione

Gli Opeth sono ormai una realtà consolidata all’interno del panorama metal contemporaneo e di sicuro una delle più collaudate. Questo grazie a quell’incessante ricerca sonora che li ha portati, album dopo album, a plasmare la materia death metal dalla quale mossero i primi passi, fino a trasformarla in qualcosa di ben più complesso, qualcosa di unico, che sfugge ad ogni tentativo di definizione (d’altronde le definizioni troppo rigide vanno un po’ strette ad una tale band).
Finora, per chi ha atteso con impazienza l’uscita di questo nono album del combo svedese, è stato naturale chiedersi fino a che punto si sarebbe spinta questa ricerca, quale altro passo (evolutivo o involutivo) avrebbe compiuto la band e quale tassello si sarebbe aggiunto al complesso mosaico che compone una discografia davvero notevole. A rendere più ardua l’attesa è stato sicuramente il desiderio di saggiare la prima prova in studio dei nuovi membri della band, Martin "Axe" Axenrot alla batteria e Fredrik Akesson alla chitarra, i quali si dimostrano all’altezza di un compito non facile, ovvero quello di sostituire due dei migliori elementi che gli Opeth abbiano mai avuto.
Disco alla mano, si ha quasi il timore che il lato melodico della band possa avere avuto il sopravvento su quello più duro, come se il precario equilibrio tra queste due forze contrastanti si fosse infine spezzato, favorendo una delle due. La stessa “Coil”, canzone di apertura, sembra confermare questa tesi. Si tratta infatti di una ballata dai toni soffusi, nella quale, oltre alla voce di Mikael Akerfeldt, troviamo una bellissima voce femminile.
In realtà, basta ascoltare i due brani successivi, “Heir Apparent” e “The Lotus Eater”, per rendersi conto che ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più complesso e che gli Opeth non hanno rinunciato alle loro mille sfaccettature, alla complessità, alla fusione di generi apparentemente inconciliabili (il prog ’70 e il death) e, perché no, all’innovazione, pur mantenendo quel marchio di fabbrica che permette loro di distinguersi. Strutture complesse che rifuggono completamente la forma canzone, umori e sensazioni contrastanti che si susseguono, veloci e potenti cavalcate che si alternano a momenti acustici dal sapore vagamente classicheggiante, nei quali i bellissimi arpeggi di chitarra acustica (molto usata in tutto l’album) giocano un ruolo centrale. Tutto questo troviamo in quelli che possono essere considerati i due brani migliori del disco.
Si prosegue con “Burden”, un vero e proprio tributo agli anni ’70, con la sua introduzione che sfiora quasi la psichedelia pinkfloydiana e un fantastico assolo di organo che riporta l’ascoltatore indietro nel tempo; con “Porcelain Heart” si ritorna alle atmosfere fastose e barocche, dove a dominare la scena sono ancora quegli intrecci di chitarra acustica che da soli accompagnano il cantato, per poi cedere il passo ad aperture più potenti ed incalzanti; “Hussian Peel” è una ballata che, poco a poco, cresce in intensità, fino ad esplode in un furioso riffing death metal, attraverso il quale il growl di Akerfeldt può trovare sfogo (dato che il suo utilizzo si è drasticamente ridotto).
“Hex Omega” è un brano altrettanto vario, che si mantiene in linea con le atmosfere dell’opera e chiude un disco complesso e sicuramente non immediato, un disco che richiede molti ascolti prima di essere metabolizzato e compreso appieno, un disco che, pur non essendo il capolavoro assoluto degli Opeth, riesce a centrare il bersaglio, mantenendosi nella media delle composizioni della band e regalando grandi emozioni.

Recensione di Antonio Giangrasso

tracklist

  1. Coil
  2. Heir apparent
  3. The lotus eater
  4. Burden
  5. Porcelain heart
  6. Hessian peel
  7. Hex Omega

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