Non è sempre necessario sconfinare tra le fredde foreste norvegesi e le spettrali colline dell'europa orientale per immergersi in un'atmosfera naturale, alla ricerca della propria realizzazione spirituale e di una conoscenza mistica che solo questi paradisi terrestri possono offrirci. Prendiamo per esempio gli Ater, 100% italiani, torinesi per essere precisi, che dopo una manciata di anni di gavetta alle spalle riescono a pubblicare il loro interessantissimo debut album, "Oltre La Vetta", gia dal titolo fedele alla madrelingua. Questi cinque ragazzi mettono alle stampe un prodotto molto introspettivo e personale, un viaggio attraverso le meraviglie di Madre Natura, che pesca le sue influenze direttamente da pilastri quali Ulver, Burzum e un pizzico di Shining, prendendone le parti più black e compattandole bene con una visione atmosferica come gia detto molto personale. La parte del leone la fanno i due chitarristi, eccellenti nei freddi giri di chitarra che vanno a dipingere al meglio le tinte di questo nebbioso paesaggio forestale e montuoso, spesso rattristato dalla pioggia che cade intensamente dal cielo. Inutile analizzare l'intera tracklist in quanto l'intero lavoro è un mosaico ben definito, ed ogni tassello segue una propria linea logica che non si discosta mai dal fulcro centrale dell'opera. Ciònonostante sono da segnalare assulutamente "Arcane Terre" e "Spirito Divino", i due episodi di maggior durata e a livello di contenuti anche i più completi. Vi ci potete trovare il succo dell'intero discorso. "Oltre La Vetta" è quindi un lungo pellegrinaggio, al termine del quale l'uomo è in grado di scoprire cosa risiede oltre la semplice conoscenza alla quale è solitamente abituato, usando la montagna come metafora per celare qualcosa di normalmente irraggiungibile, e la vetta come tappa fondamentale di questa nuova scoperta.
Certo gli Ater non avranno messo alle stampe un capolavoro, ma le idee sono chiarissime e siamo sicuri che col tempo sapranno esprimere ancora al meglio i proprio concetti, confermando poi, ancora una volta, quanto il black in lingua italiana abbia il proprio fascino tutto particolare.
Recensione di Thomas Ciapponi
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