Non c’è alcun dubbio: nell’attuale scenario del glam metal i Crashdiet stanno dettando legge.
Dopo aver superato le numerose difficoltà dovute alla sfortunata morte del proprio fondatore Dave Lepard ed aver archiviato la breve militanza del vocalist Oliver Twisted che aveva occupato il posto vacante, ecco che la band di Stoccolma da alla luce il terzo studio-album, “Generation Wild”, uscito lo scorso 14 aprile, prodotto dal team svedese RamPac e mixato da Tobias Lindell.
L’intro, consistente in 53 secondi di sirene spianate e rumore di vetri infranti funziona egregiamente da avvertimento per il cocktail esplosivo di sonorità che seguirà nei dieci brani successivi.
“Armageddon” è una perfetta track di apertura, visto che ben rappresenta il particolare stile glam rock della band, con un reef orecchiabile e un breakdown da far tremare il pavimento dei vicini di casa.
Un graduale “rullo di tamburi” introduce “So Alive”, in cui la voce di Cruz si distorce nei versi dal contenuto “vampiresco” per poi sfociare in un refrain accattivante seguito da un bell’assolo di chitarra.
Il quarto brano è quello che da il titolo all’album. “Generation Wild” ha molto del sapore del glam anni ’80, tanto che il ritornello sembra fare capolino direttamente da un qualche brano dei Motley Crue, ai quali , del resto, i Crashdiet non hanno mai negato di ispirarsi. “Generation Wild” vuole essere una sorta di inno alla ribellione e all’anarchia nelle giovani generazioni, alla “Youth gone wild”, per citare gli Skid Row. Sì, perchè proprio ispirato allo stile degli Skid degli esordi è l’assolo di “Rebel” , brano dai testi ricchi di simbolismi, e che sembra far riemergere il mondo dell’hair Metal, già dalla sua apertura con il rombo delle motociclette.
“Save her” è l’unica track riconducibile ad una love ballad, sempre chiaramente nello stile glam. Il ritmo si placa e anche i testi si fanno piu’ emotivi, meno violenti.
Ma ecco che, subito dopo, “Down with the dust” ci fa ripiombare nell’abisso del trash rock, staccando completamente con le sonorità del brano precedente. Questo è certamente uno dei pezzi migliori dell’intero album: la sezione ritmica è eccellente e l’assolo di chitarra molto intricato. Difficile non avere voglia di ascoltarla una volta dopo l’altra.
“Native Nature” comincia con una tranquilla intro ma dopo appena 30 secondi esplode, trasformandosi in una rock song ribelle ed estremamente agressiva, per non dire provocatoria, con la voce di Simon che ci ricorda, qui piu’ che mai, ancora una volta, lo stile di Sebastian Bach.
Il nono brano, “Chemical”, è del tutto particolare, un po’ a sé stante. Il tema è l’uso della droga, un’autobiografia dello stile di vita dei rockers, espresso tramite un inizio soft ed un prosieguo molto melodico. Il reef arriva dopo 2 minuti e si ripete intervallato dai suoni della chitarra di Martin, in un insieme davvero “catchy”.
I cori di “Bound to fall” richiamano fortemente l’attitudine glam/rock che ripercorre l’intero album, anche se i testi stridono in parte con questa atmosfera, affacciandosi qua e là sulla strada di un rock piu’ pulito e creando per questo una bella combinazione tra i due stili.
Decisamente malinconica, “Beautiful Pain” è la chiosa perfetta per un album che non dà spazio ad un happy ending, ed in cui i Crashdiet ritrovano una rinnovata brutalità, se non nei suoni almeno negli intenti.
Tutto questo li rende piu’ moderni e credibili sulla scena musicale dei nostri giorni e fa di questo davvero ben riuscito “Generation Wild” un must per tutti gli amanti del “dirty glam rock”.
Recensione di Valeria
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