Gli Umprey’ s McGee si sono formati nel 1997 a South Bend da membri provenienti da altre due band locali. Il gruppo è nato con l’intento di fare rock & roll,, rock progressivo ed improvvisato, il loro ultimo disco si chiama “Anchor Drops” e si apre con “Plunger”, pezzo dalle caratteristiche rock prog suonato piuttosto bene, ma che presenta parti che sembrano non avere un loro perchè, in particolar modo il cantato che risulta spesso scontato e di poco mordente. Lieve miglioramento verso la fine. La durata del brano sfiora i 6 minuti e risulta eccessiva.
“Uncommon” mantiene le caratteristiche prog. Poco da dire su questo pezzo, a parte il fatto che è piuttosto immeritevole.
“Jajunk Pt. I” inizia con un riff di chitarra che non sarebbe neanche male, ma che viene portato avanti a sfinimenti per più di metà del pezzo dal piano, con sopra sproloquianti fraseggi della chitarra. Al terzo minuto si apre un pezzo valevole introdotto dal basso, peccato che dopo venti secondi la canzone finisca
“13 Days “ si apre sulla conclusione del brano precedente ed in parte ne conserva l’atmosfera fusion. Non male la composizione del pezzo, anche se non semplicissimo da ascoltare. Peccato che degli inserti di sintetizzatore assolutamente fuori luogo guastino in parte l’atmosfera.
Su “Jajunk Pt. II” la batteria merita una menzione speciale, ottimo il feeling che da continuità ad un riff di chitarra scomposto in pause. Pezzo una spanna sopra gli altri. Molto molto buona la prestazione solistica del chitarrista.
“Walletsworth” ha un’ arrangiamento non troppo accattivante sul quale la voce si appoggia senza riuscire a valorizzarlo.
La Titletrack “Anchor Drops” è un pezzo di tendenza fusion spesso caotico, come del resto ogni pezzo di questo disco, però bisogna dare rendere merito alla tripletta chitarra basso batteria che in alcuni momenti raggiunge particolare coesione. La voce permane praticamente priva di colore.
L’ ottavo pezzo “In The Kitchen” presenta forse la prova migliore del cantante, che riesce a dare un minimo di pregnanza alla propria performance anche se per lo più a livello metrico (Il tono del cantato permane piatto). Piuttosto valido l’accompagnamento della chitarra che da vitalità al brano.
“Bullhead City” è un pezzo dalle sfumature southern-country acustico, che vede per altro un cambio di cantante e l’aggiunta di una voce femminile. Interessante il lavoro del batterista, anche se forse il volume della sua traccia è eccessivo. Questo pezzo risulta in parte fuori luogo, ma, essendo uno dei migliori del disco, è cosa buona che ci sia.
“Miss Tinkle’ s Overture” è un pezzo assolutamente cervellotico che spazia da sensazione a sensazione attraverso tipi differenti di accompagnamento, ricorda un po’ i pezzi di Mike Oldfield stile “Dark Star”, anche perché la qualità dei suoni non è molto migliore.
“Robot World” inizia con un sintetizzatore vecchia scuola (tipo quelli che usavano anche i Black Sabbath per dire) ed un pezzo basato su dissonanze che risulta piuttosto fastidioso, il resto del pezzo è molto “ambient”, niente di eccezionale.
“Mulche’ s Odissey” inizia con tutto un rumoreggiare proveniente dalla riva del mare in presenza di forti raffiche di vento. Il brano vero e proprio si apre con un bel passaggio della batteria (molto metal) che però introduce un altro pezzo mezzo fusion e mezzo rock con parti interessanti, un po’ retrospettive.
In “Wife Soup” tende a riaffacciarsi il prog. Il pezzo, dal punto di vista dell’ arrangiamento è poco più che mediocre, la voce permane il punto debole, anche se in questo brano sembra esserci un impegno maggiore. Molto simpatico a tre minuti e mezzo uno stacco di piano registrato in modo tale da sembrare una registrazione degli anni quaranta. La durata di più di sette minuti e mezzo fa si che le parti interessanti si perdano in una mescolanza grigia e non siano apprezzate abbastanza.
La conclusiva “The Pequod” inizia con una chitarra acustica ed una semplice linea di basso che seguono un giro di accordi melodico e vagamente malinconico, che però dura invariato per tutti e tre i minuti del pezzo.
Nel complesso il disco risulta, come già accennato, un po’ caotico, sia per l’accostamento dei vari stili dei pezzi, sia per i vari sovrarrangiamenti delle singole canzoni. Sebbene siano presenti parti scorrevoli ed orecchiabili, l’ascolto è piuttosto arrancante a causa di una serie consistente di arrangiamenti che sembrano accostati casualmente senza mantenere una comune idea di fondo.
Recensione di Lorenzo Canella
Siamo alla ricerca di un nuovo addetto per la sezione DEMO, gli interessati possono contattare lo staff di Holy Metal, nel frattempo la sezione demo rimane temporaneamente chiusa.