Sonorità gothic e industrial nelle 12 canzoni di "Razor Burn" , l'ottavo album studio del quartetto sud-africano The Awakening, realizzato con Massacre Records in Europa e Intervention Arts per il resto del mondo.
L'opera inizia con "Outside The Asylum" che da sola, serve già a rendere un'idea del complesso, non solo per quanto riguarda le sonorità ma anche per i testi. Ricorre infatti la tematica del senso di spaesamento, come se ci si trovasse fuori dal proprio rifugio catapultati in un mondo estraneo e avverso. L'isolamento e la desolazione sono presenti come un'angoscia che ci si porta dietro senza riuscire a scrollare di dosso; tuttavia il leader Ashton Nyte tende a precisare che nell'album non c'è spazio per il pessimismo. Probabilmente è questo l'intento ma a me spinge ad una riflessione non troppo ottimistica: abbiamo davvero bisogno di questi cloni dei cloni provenienti dalle più svariate parti del mondo che dimostrano puntualmente di mancare di stile e di originalità?
In questo lavoro infatti le sonorità ricordano -tra l'altro- gli Him ma la voce è spesso ridondante e monotona e le strutture poco solide, per non parlare della registrazione che in certi casi risulta, volutamente o meno, addirittura fastidiosa. Il discorso cambia un pò nel cuore dell'album, ovvero in "Razor Burn", che non a caso dà il titolo allo stesso: canzone piacevole che prosegue nella seguente "Darkness Calls" dove le chitarre hanno un ruolo non marginale, ma nonostante ciò neanche qui scatta la scintilla. Questa lascia il posto alla lenta "Bleeding" non prima però di essersi congedata con una voce di donna a metà tra il richiamo delle sirene e l'ululato... (E qui si potrebbe discorrere a lungo sulla leggerezza con cui oggigiorno si faccia largo uso di determinate figure, ma preferisco non addentrarmi in questa sede in tali considerazioni). Le canzoni continuano ad alzarsi e ricadere, attaccare e retrocedere fino l'ultimo sforzo di chiusura "Asylum" che mi permette di giungere alla conclusione che quello che ancora è nel mio stereo altro non è che un prodotto moderno, figlio del nostro tempo: un disco che serve a farci capire che ormai origini e cultura non sono più fattori così importanti: sublime o inutile si compone in ogni posto allo stesso modo, al Nord come al Sud.
Recensione di Cristina Alexandris
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