Prima di parlare del disco in questione è necessario tracciare i tratti somatici del gruppo, in quanto piuttosto articolati ed interessanti. La nascita dei Patos è dovuta ad un incontro casuale tra due gruppi svedesi che si sono trovati a condividere lo stesso palco (Landberk e Aegg) e che si sono piaciuti l’un l’altro al punto di mantenersi in contatto, da queste premesse è venuto a formarsi un quintetto che vede alla basso Stefan Dimle, alla batteria Ricard Huxflux Nettermalm, che ha già collaborato con Covenant e Rammstein ed una triade che rende il disco veramente particolare formata dal chitarrista PeterNylander, già figura di rilievo nella scena jazz che deve la sua formazione al BerkleeCollege, dal virtuoso del mellotron Johan Wallén e dalla singer, nonché moglie del batterista Petronella Nettermalm. Il nome Kallocain è un riferimento esplicito ad una science fiction svedese che tratta di una società utopica tra Huxley ed Orwell.
Il disco si apre con un’ inconsueta intro di violino, che viene poi ripresa durante il brano e che delinea da subito il carattere piuttosto atipico dell’ album definibile forse come melancholic post rock. La voce della singer si protrae vellutata ed ipnotica per tutto il disco, riuscendo a penetrare la mente dell’ascoltatore e ricordando lo stile vocale di Bjork e rimandando la mente dell’ascoltatore ai “TheGathering”.
La sinergia viene però raggiunta solo con l’introduzione degli altri strumenti, in particolare il mellotron che ricorda alcune melodie ipnotiche dei “Led Zeppelin” ed altri gruppi degli anni settanta. In oltre gli arrangiamenti di basso e batteria sono tutt’altro che banali contribuiscono alla resa finale del tutto. La performance del chitarrista rimane forse in ombre nei primi brani, ma anch’essa non è trascurabile ai fini della profondità emotiva di tutto il materiale preso in esame.
Il risultato è una mirabile miscela di sonorità soffuse, cullanti e malinconiche, che non giungono mai all’esasperazione , traspare insomma il fatto che i componenti del quintetto sono tutti svedesi.
Gli esempi che forse risaltano dall’ascolto dell’album sono forse tre: “Happiness” che contrappone al titolo una musicalità quasi struggente, “Look At Us” in quanto ottimo brano acustico e “Reality” per come con un riff iniziale di quattro note i Patos siano riusciti a delineare perfettamente il carattere del brano, comunque non si può dire che ci sia un effettivo dislivello tra questi e gli altri.
Il disco si conclude con un fade out che ripete in continuazione il tema dell’ultima canzone eliminando man mano uno strumento, quando si spegne anche l’ultima nota degli archi la sensazione lasciata è di immobile silenzio.
Il lavoro è compatto e coerente, anche se si può imputare al combo svedese di non aver nemmeno tentato di diversificare le atmosfere dei brani, dunque può risultare ripetitivo ad un ascolto attento e ripetuto, ma come disco di sottofondo va benissimo, magari la sera prima di dormire, ma mai in macchina, in particolare dopo le 22, visto il carattere quasi sedativo dei brani.
Recensione di Lorenzo Canella
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