La serata parte presto con i francesi Dagoba, talmente presto che in molti se li perdono, tra i quali il sottoscritto, che continua a domandarsi come mai fanno iniziare i gruppi ad orari di cena. Comunque, a detta di alcuni spettatori, pare che non siano andati affatto male.
Verso le 20 entriamo nel vivo dello spettacolo con gli storici Sepoltura, band che dall’abbandono del frontman Max Cavalera è sicuramente andata incontro a sorti di sicuro peggiori di un tempo. Comunque i nostri se ne fregano altamente e con solo una chitarra superstite, cambio di voce, batterista provvisorio, danno vita ad un impatto sonoro di grossa entità. La tracklist del concerto spazia un po’ per tutto il repertorio della band, senza sbilanciarsi né troppo a favore dei pezzi nuovi, ne diventando una rimpatriata nostalgica. Come già accennato, nonostante i vari marasmi che hanno scosso la band, ultimo dei quali un figlio appena arrivato per il drummer Igor Cavaliera, la band si pone in modo decisamente orizzontale sugli stomaci dei presenti. Il “nuovo” singer Derrik Green, seppur non arrivando ai livelli (credo irraggiungibili) del predecessore Max, sfodera una buonissima prestazione, sia dal punto di vista prettamente tecnico, che scenico, nonostante i ridotti spazi del palco del New Age. Coloro che però forse risaltano maggiormente sono il batterista Roy Mayorga (che tra l’altro è passato pure per i Soulfly) che, per nulla intimorito, sbatte sulle pelli come un fabbro, dando un contributo consistente alla prestazione generale. E poi Il chitarrista Andreas Kisser che, complice anche un suono ben calibrato, porta avanti i riff come se fossero pezzi di artiglieria. Ottimo anche il lavoro del Bassista Paulo Jr. che si trova a dover riempire anche per la chitarra mancante. Il pubblico pare apprezzare, soprattutto i pezzi stirici quali “Arise”, “Refuse\Resist” e “Roots Bloody Roots”.
Finito il concerto dei Sepu, gli In Flames si fanno attendere un bel po’, non si capisce se per necessità tecniche o solo per tirarsela un po’. Comunque finalmente arrivano gli Svedesi che restano sempre freddino come la nazione da cui provengono. Dell’apertura si prende carico “Pinball Map”, suonata abbastanza precisamente, ma con molta poca convinzione, come del resto un po’ tutta la tracklist. Forse, in questa situazione i pezzi nuovi rendono quasi meglio di quelli vecchi… sarà perché anche sull’ultimo disco (“Come Clarity”) il tutto è abbastanza piatto. Anche in questo caso la scaletta è piuttosto varia… a partire da “Colony” infatti, troviamo per lo più pezzi tratti dagli ultimi cinque dischi. Si guarda la passato solo con “Behind Space”, la tanto bella quanto mal eseguita “Moonshield” ed una goffissima “Episode 666”.
Come forse si è capito, la performance del combo scandinavo risulta nel complesso piuttosto moscia e priva di mordente, forse anche a causa di suoni non proprio ben studiati, ma comunque questo è un aspetto marginale. Tra i musicisti quello che pare più adeguato al nome (ormai ingombrante) della band è il bassista Peter Iwers, che perlomeno sembra ben sicuro di quello che suona. Gli altri si possono posizionare nella media a parte il vocalist Anders Frieden che appunto si può definire vocalist e non cantante, vista la prestazione non proprio dorata, tanto che qualcuno si è domandato se magari un polmone d’acciaio potesse essergli utile.
D’altra parte il pubblico rimane sempre entusiasta e casinaro, in mezzo al locale il pogo è continuo ed anche bello fisso. L’apoteosi, come presumibile arriva con “Only For The Weak” che coinvolge la maggior parte dei presenti… e chi si ricorda più di “Jeter Race”? Nessuno, forse nemmeno loro stessi.
Report a cura di Lorenzo Canella
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