Quello che tutti gli amanti del power e dell’hard rock d’annata aspettavano è il terzo giorno di questo decimo Gods of Metal, che dopo un paio d’anni a Bologna torna finalmente in territorio lombardo in quello che è il “mare” dei milanesi: l’idroscalo.
Senza dubbio la location è migliore rispetto all’Arena Parco Nord del capoluogo emiliano, il verde e gli alberi la rendono molto più vivibile, con ampie zone d’ombra, e sicuramente molta meno polvere, peccato solo che l’area festival non comprenda il lago, ma non si può comunque avere tutto.
L’idea invece di transennare l’area sotto il palco e limitarne l’accesso farà scatenare molte proteste da parte del pubblico, che solo in minima parte può così assistere da vicino ai suoi beniamini.
Arrivo verso le nove e mezza, e a causa di un po’ di coda alla cassa accrediti purtroppo perdo le prime canzoni delle Crucified Barbara.
Il non facile compito di aprire la giornata spetta infatti a queste quattro avvenenti ragazze svedesi, che oltre a farsi apprezzare per la loro bellezza, nonostante alcune sbavature, inconvenienti tecnici, e suoni non proprio puliti fanno comunque il loro dovere, esibendosi nei brani tratti dal loro disco d’esordio “In Distortion We Trust” con passione ed entusiasmo. Il pubblico da parte sua pur non sembrando molto coinvolto non disdegna comunque la loro prova, seguendo con una certa curiosità.
Girava voce che dopo le ragazze scandinave ci sarebbero stati gli americani Benedictum, anticipando il loro show di un giorno. Si presentano invece come da scaletta i Sonata Arctica. La band di Toni Kakko è anch’essa penalizzata dal fonico, mentre fortunatamente i suoni miglioreranno fino a stabilizzarsi nel pomeriggio. Condensati nei loro quaranta minuti i finlandesi regalano alcuni classici del loro repertorio, uniti a due-tre brani di “Reckoning Night”, ed anche se ormai si sa che Kakko dal vivo non è in grado di riprodurre la resa che ha in studio, riesce comunque a scaldare i suoi fan, che rispondono positivamente alla prestazione del gruppo intonando le varie canzoni assieme a lui.
Un'altra breve pausa ed è il momento di Tobias Sammet e dei suoi Edguy, autori di una grande serata l’inverno scorso al Rolling Stone. Subito partono con “Lavatory Love Machine” e Tobias, da gran trascinatore qual è, cattura subito il pubblico. Il piccolo singer è come sempre iperattivo, non sta fermo un secondo e si arrampica persino sull’impalcatura del palco. Per gli Edguy dal vivo non conta raggiungere la perfezione, ma far divertire gli spettatori, cosa che gli riesce facilmente.
La band nel poco tempo concessogli preferisce le ultime produzioni, offrendo brani come “Sacrifice”, “Mysteria” e “King of Fools”, senza dimenticare però il passato con “Babylon”, “Tears of a Mandrake” e chiudendo con “Vain Glory Opera”. Uno show piacevole mentre, vista l’ora, lo stomaco inizia a reclamare la sua parte. A questo punto è l’ora del consueto intervento di frate Cesare, che come tutti gli anni sale sul palco a salutare il popolo del metallo.
L’ultimo gruppo che sarà significativamente penalizzato dai suoni è quello dei brasiliani Angra. Era piuttosto scontato che il gruppo avrebbe reso meglio nei lavori più recenti, a cui più si adatta il singer Eduardo Falaschi, bravo infatti in canzoni come “Angels And Demons”, “Spread Your Fire” e “Rebirth”, ma quando è il momento di confrontasi con l’ex André Matos sui classici la critica si divide, e complessivamente su brani come “Nothing to Say”, “Carry On”, e “Carolina IV” il simpatico Edu non sembra convincere del tutto, complice forse anche un momento di forma non ottimale che ne fa scadere la performance, ed inoltre anche il chitarrista Kiko Loureiro sembra avere avuto momenti migliori, pur svolgendo degnamente la propria parte. Tuttavia anche loro portano a casa la pagnotta, ma la loro esibizione sta per essere spazzata via da un inossidabile Kai Hansen.
Ormai siamo a metà giornata ed i Gamma Ray per quasi un’ora infiammano il pubblico sin dalle prime note di “Gardens of the Sinner”. Ancora una volta la caratura del gruppo ne rende troppo ristretto il tempo a disposizione, ma ci si deve accontentare, e dopotutto fa sempre bene al cuore vedere Kai così in forma e pimpante con la sua chitarra e senza significativi cali di voce, prestarsi a intrattenere con entusiasmo i presenti.
Dopo “Man on a Mission” e “New World Order” arrivano un paio di pezzi dal nuovo “Majestic”, ma il bello ha inizio quando il singer tedesco intona l’inno “Heavy Metal Universe”, dopo il quale ci regala delle chicche del periodo Helloween come “Ride the Sky” e “I Want Out”, accennando nel mezzo “Future World”. Si chiude infine con “Rebellion in Dreamland” quello che fino a questo momento è lo show migliore della giornata.
A metà pomeriggio tocca agli Stratovarious, seguiti con meno attenzione dal sottoscritto (questione di gusti personali), che pur con un Kotipelto non certo eccelso, riescono a soddisfare gran parte del proprio pubblico con una scaletta ricca di classici, a partire dall’apertura con “Hunting High and Low”, passando per “Paradise”, “Kiss of Judas” e “Black Diamond”, e brani proposti più raramente quali “A Million Light Years Away” e “Phoenix”, mentre unica canzone dell’ultimo “Stratovarious” è “United”.
La mia impressione per quanto visto è comunque di una band che non appare al top, e la sua esibizione non è proprio entusiasmante, con non pochi problemi anche per quel che riguarda Tolkki e la sua chitarra. Ne approfitto quindi per recuperare le forze in vista della serata.
Decisamente meglio si comportano gli Helloween, che seppur con un avvio un po’ blando (con “The King for a 1000 Years” dal nuovo Keeper), riescono comunque a catturare gran parte del pubblico. Personalmente non ho mai apprezzato granchè Andy Deris, ma se non altro devo ammettere che sa come lavorarsi i fans, mentre Weikath (sigaretta in bocca e pantaloni neri in vinile che facevano venire caldo solo a guardarli) si atteggia come suo solito in espressioni più o meno inquietanti.
Nella scenografia composta da due manichini incappucciati (i “keeper”) tra cui si trova la batteria di Loeble, e successivamente due grosse zucche gonfiabili ai lati del palco, Deris sembra reggere senza troppi colpi all’era Kiske in “Eagle Fly Free” e “A Tale That Wasn’t Right”, mentre c’è ancora il ricordo dei Gamma Ray che troneggia su “Future World”. Tra gli altri brani spazio al buon “The Dark Ride” con “If I Could Fly” e “Mr. Torture”, e così via fino alla chiusura con l’orribile (non solo secondo me) “Mrs. God” e un altro classico come “Dr. Stein”. Seppur meglio del gruppo che li ha preceduti gli Helloween escono secondo me sconfitti dalla “sfida” diretta con Kai Hansen, e da questo ne potrebbe nascere una lunga discussione.
Con le zucche di Amburgo si chiude la parte power della giornata, e sta per arrivare il momento tanto atteso dagli amanti del metal ed hard rock classico. Aumenta quindi la calca in attesa che si presentino on stage i Motorhead, e dopo più di tre decadi ecco ancora una volta Lemmy fare il suo ingresso sul palco pronunciando la consueta frase “We are Motorhead and we play Rock ’n’ Roll”, che com’è ormai consuetudine da il via allo show della storica band inglese.
Fin da subito si alza un polverone sotto il palco, scatenato da un pogo che durante tutta la giornata non ha eguali, mentre il trio ci regala brani quali “Stay Clean”, “Love Me Like a Reptile”, “Dancing On Your Grave” e la più recente “Killers”. Musica potente e grezza è quello che da sempre offre il leggendario singer, assieme a un gran Phil Campbell alla chitarra ed un magnifico Mikkey Dee alle pelli che dà spettacolo di velocità facendo spuntare bacchette da ogni dove. Tra saluti e annuncio del nuovo disco si prosegue, ecco così “Killed by Death”, “No Class”, “Metropolis”, “In the Name of Tragedy” e “Just ‘Cos You Got The Power”, e l’incatramatissima voce di Lemmy conquista un pubblico per l’occasione veramente scatenato, ed in fondo vedere questo grandissimo personaggio dal vivo, una vera e propria icona rock, è un esperienza che merita di essere vissuta.
Lo spettacolo dei Motorhead sta per arrivare alla fine, con “Metropolis” e “I Got Mine” che precedono i due più grandi capolavori della band “Ace of Spades” e la conclusiva “Overkill”. L’eco della distorsione si disperde nell’aria, ed i tre, eccezionali come sempre, si congedano affiancati in mezzo al palco con le braccia ognuno sulle spalle dell’altro, prima di lasciare spazio ai preparativi per i Def Leppard.
La seconda band inglese della giornata non è certo mai stata tra i miei ascolti preferiti, perciò persa parte dell’esibizione per procurami la cena torno comunque sotto il palco spinto più dalla curiosità che dalla passione, e devo ammettere che in certi momenti i cinque hanno comunque entusiasmato, con brani come “High ‘n’ Dry”, “Hysteria”, “Photograph” o “Animal”, chiudendo in leggero anticipo ma in modo suggestivo con “Pour Some Sugar On Me”. Pur non essendomi mai piaciuti particolarmente i Leppard hanno comunque messo in piedi uno spettacolo di tutto rispetto, merito anche della freschezza (si tratta della prima data del tour) che certo gioca a loro favore, e del resto lo si vedeva nei cori con Elliott, Collen e Campbell, mentre è impressionante come Rick Allen non sbagli un colpo alla batteria pur con un braccio solo.
La conclusione leggermente anticipata avrebbe dovuto lasciare spazio all’annunciata apparizione di Joey DeMaio, da cui si attendeva un importante annuncio sui suoi Manowar. La delusione è generale quando si scopre che il fantomatico Joey non è altro che un nastro preregistrato, e che il famoso annuncio non è altro che la loro partecipazione da headliner alla prossima edizione del festival (mentre molti già fantasticavano su un ritorno di Ross “The Boss”).
Chiusa questa parentesi è il momento di Mr. Coverdale, che torna sul palco del Gods per regalare ai presenti una serata fantastica. E’ già entusiasmante assistere all’esibizione di personaggi del calibro di David Coverdale, Doug Aldrich e Tommy Aldridge, ma fa ancora più piacere vedere tra il pubblico Dirk, Felix e Tobias Exxel degli Edguy, a testimoniare quanto peso abbiano i Whitesnake anche per i gruppi più giovani, anche se affermati.
L’ex Deep Purple parte senza indugi dai suoi esordi, sfoderando già in partenza nientemeno che “Burn”, dall’omonimo album della band che per prima lo ha reso famoso. Gli anni non sembrano farsi sentire e la voce del singer è ancora a ottimi livelli, pur se con qualche comprensibile piccolo calo durante lo show, a cui sopperiscono gli assoli di Aldrich alla chitarra e di Aldridge alla sua batteria, suonata a un certo punto senza bacchette.
Si viaggia così tra “Ready An’ Willing” e “Is This Love”, passando per brani come “Love Ain’t No Stranger” e “Give Me All Your Love”, ripercorrendo la discografia del serpente bianco in un atmosfera che sembra riportare indietro di vent’anni, deliziando il pubblico con una prova da veri headliner. Se Coverdale mostra tutto il suo carisma con personalità e classe da vendere, gli altri non sono certo da meno, comportandosi da veri professionisti e confermandosi assieme ai Motorhead il gruppo migliore e più acclamato della giornata. Purtroppo devo lasciare l’idroscalo prima che il concerto sia terminato, ma per quanto visto nella prima ora di Whitesnake sono convinto che il pubblico non avrà avuto sicuramente di che lamentarsi nemmeno in seguito.
Dunque una giornata intensa, in cui erano condensati gruppi di grande valore i quali, chi più chi meno, hanno comunque fatto valere pienamente il prezzo del biglietto. Di certo il pubblico per quanto riguarda le prestazioni delle band (a parte qualche eccezione) non ha molto di cui lamentarsi, e, in attesa della giornata seguente con i Guns come headliner, il bilancio è più che positivo.
Foto:
Giovedì 1
Venerdì 2
Sabato 3
Domenica 4
Report a cura di Marco Manzi
Siamo alla ricerca di un nuovo addetto per la sezione DEMO, gli interessati possono contattare lo staff di Holy Metal, nel frattempo la sezione demo rimane temporaneamente chiusa.