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Gods Of Metal 2008 - 6/27/2008 - Arena Parco Nord - Bologna

Dopo tre estenuanti giorni di calura nell’Arena bolognese eccoci subito pronti a raccontarvi quello che è stato un ottimo Gods Of Metal. Non ce ne vogliate ma il viaggio è stato lungo e purtroppo ci siamo colpevolmente persi le prime band della prima giornata, ma ci rifaremo quando nei prossimi giorni vi delizieremo con il nostro foto report!

Venerdì 27 giugno

Ero uno dei primi che andava dicendo che gli Apocalyptica sono una delle band più inadatte al contesto di un festival ed invece dopo il loro show Gods of Metal devo rimangiarmi quanto detto: si perché i cinque finlandesi hanno dimostrato di saper coinvolgere il pubblico nonostante combinino metal e musica classica, e per di più senza parti vocali. Tre dei quattro violoncellisti erano letteralmente scatenati, correvano e saltavano come cavallette da una parte all’altra del palco nonostante l’ingombro dei loro strumenti. Il pubblico è parso coinvolto e partecipe, in particolare quando il combo finnico ha proposto la cover di Nothing Else Matters. Il nostro Gods of Metal è iniziato nel migliore dei modi. (Dimitri)

E’ poi il turno degli australiani Rose Tattoo, una band storica, ma che in Italia non ha e non ha mai avuto un grande seguito. Vederli in una posizione così alta in scaletta mi aveva in parte stupito e la risposta del pubblico di Bologna ha confermato la mia impressione, ben pochi erano infatti i fans dei quattro canguri. Nulla da dire però sulla qualità dello show offerto dai quattro “vecchi” rocker capitanati dall’inconfondibile figura di Angry Anderson, a dimostrazione che oltre trent’anni di carriera non capitano proprio per caso. (Dimitri)

Si passa a sonorità ultra moderne con l’avvento sul palco degli idoli delle ragazzine, gli Avenged Sevenfold. Il gruppo californiano non ha il carisma e la classe per reggere uno show prima dei Maiden, inoltre l’esibizione è stata decisamente sottotono, ma il pubblico italiano ha saputo farsi riconoscere ancora una volta. Irriverenti i cori inneggianti la band di Harris & Co durante le pause tra una canzone e l’altra, ma soprattutto veramente incivile il lancio di bottiglie nei confronti degli artisti. (Dimitri)

Dopo una caldissima giornata e una lunga attesa, tutto è pronto per il vero grande evento: l’unica data italiana degli attesissimi Iron Maiden, impegnati nel mastodontico “Somewhere back in time”, tour che ha riscosso un’enorme successo in tutto il mondo e ha avuto grande supporto da parte dei fan. Passata la tensione dovuta all’ostilità dei metalheads nei confronti degli Avenged Sevenfold, l’atmosfera si fa elettrica e l’arena, completamente piena di fans, è pronta ad accogliere i propri beniamini.
In leggero anticipo rispetto al programma, alle 21, cala il velo nero che ricopre la straordinaria scenografia egizia e il pubblico accoglie con un boato le note di “Aces High” che, preceduta dall’immancabile “Churchill’s Speech”, segna l’inizio di uno spettacolo che si preannuncia decisamente rovente ed intenso. La band balza sul palco e dà il meglio di sé, sostenuta da una folla decisamente entusiasta, che canta all’unisono ogni singola strofa di ogni singola canzone proposta. A scandire i vari passaggi di questo straordinario rituale, abbiamo delle vere e proprie perle, grandi anthems che hanno reso i Maiden la più grande band heavy metal di sempre: Da “2 Minutes To Midnight”, fino a “Can I Play With Madness” e “Fear Of The Dark” (la canzone più recente proposta durante la serata), passando attraverso momenti memorabili, quali “The Trooper” (con Bruce Dickinson che canta indossando la divisa dell’esercito inglese durante la guerra di Crimea, e tenendo la bandiera inglese stretta nel pugno), “Wasted Years”, “The Number Of The Beast”, gli emozionanti 13 minuti di “The Rime Of The Ancient Mariner”, “Powerslave” (con Disckinson che canta mascherato, come nel mitico “Live After Death”) e “Heaven Can Wait”. Sulle note di “Iron Maiden” fa la sua comparsa, da dietro un sarcofago, un enorme Eddie in versione mummia che, dall’alto, saluta la folla minaccioso.
Il bis finale inizia con la fantastica “Moonchild”, si fa rovente quando, sulle note di “The Clayrvoiant”, compare il gigantesco Eddie cyborg, ed esplode in un boato quando, sul fimale di “Hallowed Be Thy Name”, Bruce incita il pubblico al grido di “Scream for me Bologna… Scream for me Bologna!”. Così un lungo e scrosciante applauso saluta la band che si congeda, in attesa di tornare dal suo pubblico italiano e regalare ancora grandi emozioni.
I Maiden sono riusciti a chiudere in maniera esemplare la prima giornata del Gods of Metal 2008 (poteva essere altrimenti?!), forse con qualche piccola pecca, qualche imperfezione nell’esecuzione ma, diciamocelo, di fronte ad uno spettacolo così intenso, di fronte a tanta grinta e tanta passione, di fronte a una band che, nonostante i suoi 30 anni di attività, ancora oggi riesce a farci saltare, gridare ed emozionare, questi piccoli dettagli scompaiono e resta una sola certezza: gli Iron Maiden mettono tutti d’accordo. (Antonio)

Setlist:
Aces High
2 Minutes To Midnight
Revelations
The Trooper
Wasted Years
The Number Of The Beast
Can I Play With Madness?
Rime Of The Ancient Mariner
Powerslave
Heaven Can Wait
Run To The Hills
Fear Of The Dark
Iron Maiden
---------------
Moonchild
The Clairvoyant
Hallowed Be Thy Name

Sabato 28 giugno

La giornata del 28 si apre con i vincitori del concorso istituito all’Italian Gods Of Metal, loro si chiamano Brain Dead e portano sul palco dell’arena un thrash metal influenzato dal movimento della bay area, l’aggressivita e la violenza infatti non mancano e ci si chiede come mai in Italia non è stato messo in evidenza un gruppo con simili doti considerando anche l’uso di un solo chitarrista, cosa insolita per in genere proposto. Il loro show si è rivelato una grande sorpresa, un’ ottima dimostrazione del loro successo meritato a pieni voti al concorso indetto dalla Live. (Thomas)

Altro gruppo nostrano nella giornata più estrema che la storia del Gods Of Metal si ricorderà, chi potevano essere se non gli Stormlord? La band romana si ipone subito con la loro classe di ricreare atmosfere epiche e maligne allo stesso momento, concentrando la loro scaletta purtroppo brevissima su pezzi estratti dal loro ultimo “Mare Nostrum” ben acclamato dal pubblico presente. Un carichissimo Francesco Bucci si improvvisa poi narratore di leggende oltre che eccellente bassista dando un tocco di classe all’esibizione della band che dimostra il suo buon momento affermandosi ancora una volta un caposaldo della nostra penisola. (Thomas)

Gli americani Between The Buried And Me sono i primi del trittico pazzo a salire sul palco del Gods of Metal. Il tempo a loro disposizione è limitato, quindi a parte Selkies estratta da Alaska, il combo d'oltreoceano preferisce puntare su una scaletta che privilegia l'ultimo album Colors. Da questo lavoro vengono proposte i tre pezzi finali Prequel to the Sequel, Viridian e White Walls, il tutto in maniera ineccepibile. Thomas Giles Rogers Jr. guida la sua folle band tra i meandri del prog e del metalcore, con il suo cantato urlato e le sue tastiere , che in sede live emozionano ancor più che su disco. L'unico appunto che si può fare è la mancanza di Ants of the Sky dal set, ma ciò è giustificato dal breve tempo disponibile. (Dimitri)

Non ci si può rilassare che subito il palco viene messo a soqquadro dai The Dillinger Escape Plan. Greg Puciato è in forma strepitosa e da una dimostrazione di come un frontman deve tenere in mano il pubblico, correndo, saltanto, interagendo e arrappicadosi sui piloni del palco durante . Gli altri quattro suoi compagni però non sono da meno e le loro continue "pazzie" fanno tenere i fans con gli occhi incollati. Mai il gruppo del New Jersey non si esaurisce in impatto visivo, difatti. nonostante la temperatura rovente, a livello musicale la prestazione è stata letteralmente da urlo tanto che per il sottoscritto sono stati senza dubbio una delle migliori band, se non la migliore in assoluto, della tre giorni bolognese. Molto bella pure la scaletta dello show che si è aperto con Panasonic Youth e chiuso con Sunshine The Werewolf, ma di mezzo sono stati presentati brani come Milk Lizard, Black Bubblegum e Van Damsel, soltanto per fare qualche esempio. (Dimitri)

Giunge cosi il momento della prima grande reunion della giornata, avete capito bene , è il turno degli At The Gates pronti a portare anche in Italia uno show devastante per dare l’addio (forse) a chi in questi anni li ha amati, aspettati e sognati ancora assieme. L’esibizione della band dei fratelli Bjorler si apre sulle note di Slaughter Of The Soul e da subito si capisce che piega prenderà questa oretta storica, nonostante i volumi troppo bassi, veri e propri fantasmi di questa edizione del festival. La scaletta viene strutturata principalmente sulle tracce del capolavoro degli svedesi, si và dalla sopracitata a Cold, da Under A Serpent Sun fino a Suicide Nation, senza dimenticare pezzi più vecchi come Kingdom Gone o The Burning Darkness fino alla conclusiva e immancabile Blinded by Fear, cavallo di battaglia degli ATG. Insomma se questo è davvero l’addio del pilastro per eccellenza del Gothenburg sound allora non potevamo che essere più soddisfatti di cosi, con un’ottima esibizione in cui tutti hanno svolto il loro lavoro eccellentemente, da un carichissimo Lindberg a un decisivo e perfetto Anders. Arrivederci At The Gates !!! (Thomas)

I Testament, che possiamo definire degli assidui frequentatori del Gods of Metal, non ci mettono molto a incendiare gli animi dei presenti. La serie iniziale di mazzate assestate dalla band è una palese dichiarazione di intenti: si parte con “Over The Wall” e si prosegue con una serie di altri grandissimi classici, “Into The Pit”, “Apocalyptic City”, “Practice What You Preach” e “New Order”. La scaletta sembra prediligere dunque i brani storici, quelli che la band propone dal vivo ormai da anni, e in effetti, assistendo all’intero concerto, si nota che sono solo due i brani tratti dall’ultimo “Formation of Damnation” (per l’esattezza “More Than Meets The Eye” e “Henchman’s Ride”). Non mancano brani tratti dall’ottimo “The Gathering”, ovvero “D.N.R.” e “Three Days In Darkness”, mentre a concludere lo spettacolo ci pensano altri due grandi cavalli di battaglia, “Alone In The Dark” e “Disciples Of The Watch”, brani molto apprezzati dal pubblico che saluta calorosamente la band.
Nel complesso la prova della band è stata degna del suo nome e il pubblico non ha fatto mancare il proprio supporto, questo a dimostrazione dell’enorme rispetto di cui godono i cinque thrasher della Bay-Area. Da segnalare soprattutto l’ottima prova di Skolnick alla chitarra e di Bostaph alla batteria, mentre Chuck Billy ha dato segni di affaticamento in alcuni frangenti, senza comunque perdere il suo grande carisma. (Antonio)

Dopo l'ottimo show dei thrasher d'oltreoceano è il turno dei nordici, freddi e schizofrenici Meshuggah. Devo dire che avevo grande curiosità di vedere il gruppo di Jens Kidman e soci e dirò subito che, purtroppo, i cinque svedesi mi hanno deluso. Mi attendevo uno show carico, potente, devastante ed invece, forse per il caldo, è stato tutto il contrario: un concerto tecnicamente perfetto (incredibile quello che riesce a fare Tomas Haake dietro alle pelli) ma letteralmente piatto; la band, penalizzata anche da dei volumi bassissimi è apparsa fiacca e svogliata soprattutto ad inizio set. Soltanto la chiusura con la mitica Future Breed Machine mi ha risollevato leggermente il morale, dandomi la speranza di rivedere i Meshuggah in una condizione ben migliore. (Dimitri)

Ci si aspettava forse uno scenario più indimenticabile per la seconda reunion della giornata, invece i Carcass hanno deciso di suonare cosi, senza nessun backdrop alle spalle, completamenti soli, davanti al loro pubblico per poterlo salutare un’ultima volta. Appena la band di Jeff Walker fa il suo ingresso sullo stage la gioia è immensa, una delle band più storiche del panorama estremo è finalmente riunita dopo 13 anni davanti ai nostri occhi. Qualcosa di mastodontico si erge sul palco, un Jaff Walker che non è cambiato di una virgola in tutti i sensi, un Bill Steer fantastico, perfetto e decisivo, un Amott notevolmente lucido nonostante qualche errore probabilmente dovuto anche dall’eccessivo caldo, e un Erlandsson che dimostra di rimpiazzare meritatamente un mostro quale fu Ken Owen. La scaletta varia dai primi pezzi grind fino ad arrivare al capolavoro Heartwork, mentre solo Keep On Rotting viene estratta dal conclusivo Swansong. C’è spazio anche per una piccola apparizione di Ken Owen a cui andrà il ricavato delle date live della band, ricordiamo infatti i suoi malesseri dovuti da una forte emorragia celebrale. Cosi dopo l’abbraccio tra Walker e l’ex batterista i Carcass sono pronti a salutarci con Heartwork, ennesima conferma di quanto il tempo passi, ma la bravura rimane immutata per i ragazzacci di Liverpool. (Thomas)

C’è chi li ama, c’è chi li odia, fatto sta che è il loro turno di esibirsi. Accompagnati da una fila immensa di amplificatori e dallo stendardo di Still Reigning alle spalle, arrivano sul palco gli Slayer. In verità da dire c’è ben poco, la band californiana infatti ci porta il solito show, le solite presentazioni, la solita solfa insomma, ma allo stesso tempo anche la sempre eccellente e indelebile bravura, a partire dal leader carismatico Kerry King che non ho visto star fermo un attimo, tra headbanging, assoli portentosi e riff agghiaccianti come solo lui sa fare. Insomma abbiamo assistito ad un'ennesima prova che per questi quattro individui l’età non conta minimamente, come del resto non conta l’originalità, ma alla fine è davvero cosi tanto importante in una band come loro che non hanno mai fatto altro che proporre thrash nella sua forma più violenta per tutti questi anni? La risposta l’abbiamo trovata sulle note di Angel Of Death dove la band ci ha augurato la buonanotte come nessun altro sa farlo. (Thomas)

Setlist:
Darkness of christ
Disciple
Cult
Chemical warfare
Ghosts of war
War ensamble
Jihad
Die by the sword
Spirit in black
Eyes of the insane
Supremist
Payback
Dead skin mask
Hell awaits
Postmortem
Captor of sin
South of heaven
Raining blood
Mandatory suicide
Angel of death

Domenica 29 giugno

Gli austriaci The Sorrow aprono l’ultima giornata di questa edizione del Gods of Metal alle 11, sotto un sole cocente e con un pubblico ancora poco numeroso, composto più che altro da qualche fan e qualche curioso, niente più. La band appare abbastanza carica e motivata, e propone un rapidissimo set composto da poco più di una manciata di brani, anche se non riesce a scuotere più di tanto un pubblico che inizia forse a risentire della stanchezza accumulata dopo due giornate davvero intense. E’ ancora troppo presto e la giornata si preannuncia molto rovente, non solo da un punto di vista meteorologico. Meglio risparmiare le energie. (Antonio)

Dopo un eccessivo tempo di attesa per una band che suona ad un tale orario entrano i Nightmare, che prendono il posto momentaneo di Fratello Metallo posticipato 1 ora dopo. La band francese si è rivelata una grande sorpresa, me ne avevano già parlato fin troppo bene, ma vederli sul palco non ha fatto altro che confermare queste voci. Peccato davvero che non ho potuto godermeli al 100% vista la mia conoscenza nulla, ma con ciò non si può non accorgersi che ci troviamo di fronte a professionisti, dal frontman Joe Amore pieno di energia e entusiasmo alle due chitarre davvero stupefacenti. Una delle band più lucide dell’intero festival. (Thomas)

Una delle poche band di casa a questo Gods of Metal sono stati gli Infernal Poetry. Il combo marchigiano apre lo show con l’ottima Forbidden Apples durante la quale il singer Paolo Ojetti ringrazia e incita il pubblico a più riprese. Si continua poi con The Frozen Claws Of Winter, Crawl, I Always Lay Beneath, From Mortal Body To Eternal Soul, durante la quale Paolo riesce pure a farsi gettare una bottiglia di vino dalle prime file. Ma tornando all’esibizione bisogna dire che gli Infernal Poetry sono una garanzia di cattiveria, rabbia e tecnica qualsiasi sia il palco che si trovino a calcare. Lo show è concluso con The Next Is Mine, durante la quale sul palco si presenta pure l’ormai onnipresente Trevor dei Sadist che, anche questa volta, ha dato saggio delle sue innegabili doti di leader. (Dimitri)

Tanta parlare ha fatto la scelta di far suonare sul palco del Gods of Metal Fratello Metallo. Sinceramente erano anni che vedevo questo personaggio in giro per i festival estivi e lo ritengo un fan del metal come tutti noi. Ho trovato eccessiva la scelta di farlo esibire, ma questo ha dato, in un modo o nell’altro, grande visibilità al festival anche sui media nazionali. La band ha suonato solo due pezzi, 15 minuti di set, ma sono bastati per creare polemica tra sostenitori e detrattori. E come successo due giorni prima, anche durante l’esibizione di Fratello Metallo sono volate bottiglie al suo indirizzo. In Italia non si conosce la parola rispetto. Peccato. (Dimitri)

Si torna a fare sul serio con l’ingresso sul palco degli Enslaved. Abituati alle fredde lande di Bergen, i cinque norvegesi sono stati sicuramente coloro che hanno patito maggiormente le temperature tropicali dell’Arena. Dopo un buon inizio con Path To Vanir il calo è stato evidente e soprattutto sul viso di Grutle si leggeva la fatica e la sofferenza a stare sul palco in quelle condizioni. Anche la scaletta non è stata delle migliori e il breve set è stato incentrato completamente sui lavori più recenti, dimenticandosi completamente di lavori come Frost e Eld. La temperatura d’esercizio degli Enslaved non era compatibile con quella presente a Bologna: li aspetteremo per gli show nei club, che meglio si adattano a loro. (Dimitri)

Rimaniamo sull’estremo, ci spostiamo però dalla Norvegia alla Florida per il turno del primo pezzo della storia del death metal presente quest oggi a Bologna. Entrano sul palco con Xecutioner's Return alle loro spalle gli Obituary, più possenti che mai e con due obbiettivi, portare cattiveria a palate e dimostrare il loro ottimo momento, cosa che avviene fin da subito grazie a un John Tardy fantastico sotto ogni punto di vista, si vede che quest uomo ha un esperienza non indifferente che lo rende uno dei singer più in gamba del panorama death mondiale con la sua voce grottesca e devastante. La risposta del pubblico è eccellente, grossi acclami e poghi giustificati soprattutto sulla trascinante Cause Of Death eseguita da veri maestri. Un’ennesima prova dell’importanza che questa band ha sull’intero movimento estremo. (Thomas)

Non ci spostiamo dalla Florida, è il turno infatti del secondo pezzo storico del death metal. Tocca ai Morbid Angel prendere il testimone appena passato dai loro cugini, lo fanno con un ingresso che manda in delirio il pubblico dell’arena, sopra tutti si erge la figura del frontman David Vincent, pronto anche quest oggi a darci una dose massiccia della sua cattiveria. Non ci potevamo aspettare davvero uno show migliore, pare che le carte in tavola per una possibile ripresa discografica ci siano tutte visto lo stato di forma dei quattro musicisti che ci regalano pezzi leggendari del loro repertorio come “Immortal Rites” o “Maze of Torment”, quest ultima suonata non da delle persona ma dei demoni musicali e non. C’è spazio anche per un’anteprima della loro ultima fatica in studio che uscirà nei negozi da qui a breve e che ogni buon fans della band non oserà perdersi. Con un Trey impeccabile, un Pete che non conosce la stanchezza, un David immenso amatissimo dai presenti e una buona prova del nuovo Thor Myhren si conclude cosi con una promozione a pieni voti anche l’ultimo spiraglio di musica estrema di questa edizione del Gods. (Thomas)

Dopo il devasto generato da Obituary e Morbid Angel tocca a Yngwie Malmsteen rilassare l’Arena. Le doti dell’artista svedese sono immense, con la sua chitarra riesce a fare tutto quello che vuole ed anche l’esibizione del Gods of Metal ne ha dato conferma, dove tra l’altro era accompagnato da Tim “Ripper” Owens alla voce, che ha riscosso quasi più applausi di Malmsteen stesso. Ho però sempre trovato negativo l’atteggiamento del chitarrista svedese, una manifesta superiorità mista ad arroganza, che non fa altro che inimicarsi molti possibili fans, certo lui è così, è un mostro alla chitarra, ma ciò non toglie che dopo alcuni pezzi i suoi velocissimi assoli distruggono le orecchie. La tipica rottura della chitarra e il lancio nel pubblico sono la cosa che più mi infastidisce, perché ripetuta per scelta ogni concerto, non genera più la minima emozione. Promosso come musicista, bocciato come persona. (Dimitri)

Tutti si domandavano se era davvero giusto far suonare gli Iced Earth appena sotto i Priest, sarebbero stati all’altezza? Se lo sarebbero meritato? Bene la risposta a queste domanda la troviamo in Matt Barlow, storico singer della band riunitosi da poco dopo ai suoi compagni dopo un addio provvisorio per qualche anno. E’ lui infatti il vero punto di forza di questa esibizione, niente da togliere ai rimanenti componenti sia chiaro, ma come sa tenere il palco lui lo sanno fare davvero in pochi. La scaletta azzeccatissima sembra quasi fatta appositamente per mettere in risalto le sue prove vocali, tra acuti paurosi, attimi di cattiveria e momenti di riflessione riesce a rendere pezzi come Dark Saga, Violate, Dracula o le più recenti Ten Thousand Strong e Declaration Day, dei veri e propri capolavori ampliati dai riff perfetti del sempre brillante Schaffer. Uno show quasi perfetto se non fosse per i soliti problemi di volume, ora aspettiamo l’atteso nuovo album per confermare il loro buon stato di forma. (Thomas)

Tocca ai Judas Priest concludere questa esaltante tre giorni di musica, e la conclusione, a giudicare dalla scenografia allestita, si preannuncia davvero entusiasmante, degna dei cinque “Metal Gods”. In fondo al palco spicca la batteria, in posizione decisamente rialzata, e ai lati troviamo due scalinate che conducono a due piattaforme che sovrastano la scena. Ad arricchire il tutto, alle estremità del palco e sullo sfondo, troviamo le ormai famose croci che sono il simbolo della band. Il numero dei presenti è di molto inferiore a quello dei due giorni precedenti, ma questo non significa che il pubblico non sia stato all’altezza della situazione.
Si inizia con l’intro “Dawn Of Creation”, seguita da “The Prophecy” , entrambe tratte dal nuovo album, e Rob Halford compare in cima ad una delle due piattaforme ricoperto da un lungo e scintillante mantello, il volto incappucciato e una lunga asta in mano, come se fosse un antico e potente stregone. A riscuotere maggior successo sono però i classici e la band non ne risparmia neanche uno: vengono riproposti brani quali “Metal Gods”, “Between The Hammer & TheAnvil”, “Breaking TheLaw”, “Hell Patrol”, “The Hellion/Electric Eye”, “Rock Hard Ride Free” e “Sinner”. A parte l’opener, “Death” è l’unica canzone tratta dall’album Nostradamus, segno che la band punta tutto sui classici per stupire il suo pubblico italiano. La risposta è a dir poco entusiasta e nell’arena risuona un grande coro che accompagna Halford e soci durante le fasi del concerto. Un vero e proprio boato esplode quando Scott Travis accenna l’introduzione di “Painkiller” e sulle note di questa fantastica canzone i Judas Priest si congedano per un attimo, prima di concedere il bis e salutare i propri fans.
Dopo pochi secondi si ode un rombo, Rob Halford sale sul palco in sella alla moto e iniziano le note di “Hell Bent For Leather” (non poteva mancare!). Il brano manda letteralmente in visibilio il pubblico che canta insieme alla band. A seguire, “The green Manalishi” e un breve “botta e risposta” tra Rob Halford e il pubblico, fanno da preambolo al brano finale, “You’ve Got Another Thing Comin’ ”.
Si conclude così l’ultimo grande spettacolo di questa edizione del Gods Of Metal, con i Judas Priest sul palco che salutano la folla e un lungo e scrosciante applauso ad accompagnare la loro uscita di scena, prima che cali il silenzio e tutto taccia, in attesa della prossima edizione. (Antonio)

Setlist:
Dawn of Creation
Prophecy
Metal Gods
Eat me alive
Between the hammer and the anvil
Devil’s Child
Breaking the law
Hell patrol
Death
Dissident aggressor
Angel
The Hellion/Electric Eye
Rock hard Ride free
Sinner
Painkiller
-----------
Hell bent for leather
The green Manalishi
You’ve got another thing comin’


Report a cura di Thomas Ciapponi, Antonio Giangrasso, Dimitri Borellini

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