La terza edizione dell’Unholy Alliance è stata caratterizzata dallo scarso appeal avuto sul pubblico, dall’annuncio della data al concerto stesso, nonostante sia gli Slayer che la Live abbiamo fatto di tutto per promuovere l’evento. I primi annunciando che avrebbero suonato tutto “Reign In Blood”, la seconda effettuando una super-promozione con biglietto scontato del 50%. Nonostante ciò al Palasharp di Milano, in un venerdì sera, tra le altre cose, non c’era il pubblico delle grandi occasioni.
Il nostro Unholy Alliance parte con “Death in Fire” degli Amon Amarth. La band di Johan Hegg, ormai consolidatissima, è riuscita a strappare un posto in questo tour che gli ha dato, a ragione, ancor maggior visibilità. Il loro death metal guerresco esalta subito i presenti, la già citata “Death in Fire” è il cavallo di battaglia del combo svedese, che poi prosegue “Asator” e quindi con la titletrack dell’ultimo album “Twilight Of The Thundergod”. Altri tre brani, prima della chiusura affidadata a “Pursuit of Vikings”. Gli Amon Amarth, ormai, sono una garanzia, che sia opener o headliner, il loro buon concerto lo offrono sempre.
Via i drakkar ed ecco on stage gli americani Mastodon, putroppo in formazione rimaneggiata, a 3 elementi, a causa del ricovero ospedaliero del chitarrista Bill Kelliher, rimasto lontano dai palchi dell’Unholy Alliance per quasi tutta la durata del tour. La mancanza si sente, e non poco, sopratutto per chi, come me, non ama la complessa proposta del combo a stelle e strisce. E devo dire che molti dei presenti la pensavo come me, infatti i Mastodon, nonostante uno show di grande impegno, sono stati i meno acclamati della serata.
C’è da dire a loro discolpa, che per le due band seguenti, i concerti sono il loro pane quotidiano. I Trivium, volente o nolente, hanno smalto e capacità di saper sfruttare le grandi occasioni. Ed anche in questo show meneghino, davanti al pubblico degli Slayer lo dimostrano. Un quartetto ispiratissimo, che scatena il mosh, privilegiando pezzi del recentissimo Shogun. Matt Heafy non smette mai di “sciommiottare” James Hetfield, ma ormai, alla terza volta che li vedo, non ci faccio più tanto caso, badando di più al sodo e quindi al divertente e carico show che ci hanno offerto, diventando, anche loro, una vera garanzia in on stage.
Ed ora gli Slayer. Perso l’appeal dei tempi d’oro, vuoi anche per i continui passaggi in Italia, Araya e soci, cercano espedienti per richiamare ancora un grande pubblico. E per la prima volta da quando li seguo (son giovane io...) è sparito il “mitico” backdrop, che ha lasciato spazio ad un più scenografico pannello luminoso. Bè nonostante questo l’inizio è pessimo. E quasi quasi mi stava venendo il rimorso di aver scelto gli Slayer, ancora una volta, piuttosto che gli Slipknot che avrebbero suonato di lì a quattro giorni.
Ma poi la musica è cambiata: da “Season in The Abyss” in avanti gli Slayer sono stati devastanti. Quando poi è partito l’intero “Reign in Blood”, da “Angel of Death” fino al finale con “Raining blood”, la goduria era alle stelle. 30 minuti di violenza e distruzione. Gli anni passano anche per loro, certo, ma sentire “Reign in Blood” per intero dal vivo non ha prezzo.
Immortali.
Report a cura di Dimitri Borellini
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