The priest is back e la folla che si riunirà all’interno del Mazda Palace lo dimostra. Il ruolo di gruppo spalla avrebbe dovuto essere dei Paradise Lost che, a causa dell’assoluto riposo ordinato dai medici al chitarrista Greg Mackintosh, han dovuto rinunciare a questo show. Già felice per la loro assenza mi rallegro ulteriormente quando pochi giorni prima del concerto viene reso noto il nome del nuovo guest: i Domine.
Alle 20:00 i nostri toscani danno inizio allo spettacolo con Overture Mortale, l’intro del loro ultimo disco seguita ovviamente da Battle Gods. Il suono è buono e come dichiarerà poi Morby, i musicisti appaiono veramente onorati di suonare come spalla a un gruppo di tale importanza. Il tempo a loro disposizione è di circa mezz’ora, durata che determina una scaletta contenente solo grandi hit: Hurricane Master, Aquilonia Suite, Thunderstorm e per concludere Dragonlord. Buona prestazione da parte di tutti i membri, su tutti un mitico Morby che più di una volta mi ha fatto venir la pelle d’oca con i suoi acuti irraggiungibili, ma soprattutto in alcuni passaggi più bassi (anzi, meno alti!) e più espressivi. Complimenti più che meritati a questa band dall’accento inconfondibile.
Durante la performance dei Domine e la pausa i fan aumentano fino a riempire quasi totalmente la struttura e alle 21:00, quando il buio circonda tutti noi, arriva il momento dei Judas Priest. Il palco è stato accuratamente addobbato per uno show coi fiocchi, il simbolo del gruppo lo troviamo sui due lati del palco mente lo sfondo cambia più volte durante la prestazione.
Un boato accoglie i quattro musicisti che attaccano subito con Electric Eye, le luci illuminano lo sfondo costituito da un immenso occhio il cui telo nero che rappresenta la pupilla cade quando la voce entra in campo e il frontman appare proprio al centro dell’occhio. Come di rito Halford rimane immobile per i primi minuti del pezzo per poi spostarsi coi suoi movimenti meccanici e sbucare in varie parti del palco utilizzando i vari giochetti tecnici come sempre allestiti per lo spettacolo dei Judas.
Il suono è potente e molti pezzi tratti da album più datati suonano completamente diversi rispetto alla versione in studio avente un suono deboluccio. Il pubblico risponde bene e la reazione è buona anche con brani tratti dall’ultimo disco come Hellrider, Judas Rising e Revolution, canzoni che si rivelano molto adatte da riproporre dal vivo.
Pescando brani dal paniere Judas Priest il gruppo ripercorre un po’ tutta la storia della sua gloriosa carriera suonandoci brani come Diamonds and Rust, Hot rockin’, Turbo Lover, Metal Gods, A Touch of Evil, etc. Tra i numerosi pezzi il chitarrista Glenn Tipton trova spazio per un assolo semplice e ripetitivo, adatto però per incitare i discepoli che ripetono eccitati le tre note sputate dalla 6 corde.
Dopo l’introduzione di Rob che urla: “Breaking the what?” i nostri bravi cinquantenni attaccano con il noto brano invertendo le mani di uno sullo strumento dell’altro (commettendo anche qualche errorino) per poi lanciarsi assieme al pubblico nel vortice di energia creato dalla famosa Breaking The Law.
Quelli che come me non hanno una vasta conoscenza dei Judas vengono comunque travolti e coinvolti con uno dei maggiori cavalli di battaglia di questo longevo complesso, ovvero Painkiller.
Questa fa veramente esplodere la massa che viene poi placata da una finta uscita di scena del gruppo. Dopo pochi minuti si sente il rombo di un Harley e subito dopo Halford si precipita on stage con moto e classico look, pelle e metallo a volontà. Questo significa Hell Bent For Leather seguita da Living After Midnight e You’ve got Another Thing Coming in chiusura di uno show che, nonostante la presenza di qualche steccatina, ritengo sia stato complessivamente buono.
Report a cura di Mattia Berera
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